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Umbria Jazz 2021

Umbria Jazz 2021

Courtesy Roberto Cifarelli

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Perugia
Varie sedi
09—18/07/2021

Fra i molti festival jazz che si sono affollati e sovrapposti nei mesi di giugno e luglio, probabilmente Umbria Jazz è quello che più ha sofferto della situazione pandemica. L'impossibilità di organizzare i concerti gratuiti nel centro storico, la mancanza di turismo, la defezione, anche all'ultimo minuto, di alcuni artisti in programma, le rigorose precauzioni da adottare hanno snaturato l'identità del festival umbro, che ha dovuto ripiegare su un ridimensionamento, pur di confermare la propria irrinunciabile esistenza e il proprio ruolo. Encomiabile è stata l'organizzazione logistica degli spazi dei concerti con i dovuti distanziamenti, strettissimi i controlli per l'accesso ai concerti stessi nei confronti di un pubblico comunque responsabile. Il programma poi, come vedremo nel resoconto degli appuntamenti dell'ultima settimana, era di tutto rispetto: senza le stelle del pop ovviamente, ma ai livelli delle passate edizioni per quanto riguarda le proposte jazzistiche. Nonostante tutto ciò, la risposta del pubblico è stata un po' inferiore alle aspettative.

I concerti serali, come in passato, si sono svolti all'Arena Santa Giuliana, vasto spazio in cui l'amplificazione si è rivelata di alta professionalità in tutte le occasioni. Tra le apparizioni, strepitosa si è delineata l'esibizione di Cecile McLorin Salvant, che ha dimostrato una maturità e una personalità assolute, affrontando un repertorio che è transitato dallo Spiritual a "Over the Rainbow," da Kurt Weill a Burt Bacharach e Sting. La sua pronuncia tornita, la sua misura, le sue intelligenti modulazioni vocali hanno portato a lunghe narrazioni che hanno esaltato il senso drammatico dei testi, ipnotizzando l'ascoltatore e facendolo sentire al centro delle sue attenzioni. Del tutto congeniale il sodalizio stretto con il pianista Sullivan Fortner, la cui diteggiatura sgranata, con un uso imperioso della mano sinistra, ha espresso un pianismo completo, contrastato e rapsodico, dalla potenza romantica e dalle illuminazioni impressioniste.

Subito dopo ci si è immersi in una situazione del tutto diversa, decisamente frastagliata e tonica. Nel nonetto cosmopolita Bokanté, tre percussionisti e cinque chitarristi, fra cui Michael League, l'animatore di questo rigoglioso progetto transculturale, hanno garantito una sostenuta esuberanza ritmica, farcita da una molteplicità di effetti timbrici. Il sontuoso, palpitante contesto strumentale, in cui ogni membro ha avuto modo di mettersi in evidenza, era al servizio della brava e dinamica cantante Malika Tirolien, originaria dell'isola di Guadalupa, altro punto di forza della formazione.

Una serata è stata dedicata a due star del jazz statunitense più canonico. Brad Mehldau, che fin dai suoi esordi è uno dei beniamini del festival umbro, era in trio con i fidi Larry Grenadier e Jeff Ballard. Gli ingranaggi dell'interplay di questo sodalizio sono talmente ben oliati che il loro jazz rischia di scivolare via avvincendo ma senza sorprendere più. E invece è proprio il caso di sottolineare il seducente senso melodico del pianista, il suo fraseggio ora più scandito e perentorio ora circolare, quasi ciclico ma con minime variazioni, il brio nell'interpretare brani brasiliani o il modo circonvoluto di affrontare il blues, arrivando ad aggrovigliare la diteggiatura nella tensione dei crescendo. L'apporto dei due partner è stato inoltre apprezzabilissimo per la swingante leggerezza. Nulla di nuovo quindi, ormai un classico dell'attuale mainstream, che ha tuttavia confermato la sua assoluta armonia formale.

Il successivo set del consolidato quartetto di Branford Marsalis, con Joey Calderazzo, Eric Revis e Justin Faulkner, è stato invece più energetico, giocato sull'alternanza di situazioni molto eterogenee, con cambi di direzione anche all'interno dello stesso brano. A un tema su tempi molto veloci, che ha innescato un'incalzante frenesia, ha fatto seguito una ballad distillata nella lentezza più distensiva; un passaggio improntato alla più rotonda e bluesy concretezza ha lasciato il posto a una ballad più scura e pensosa, poi sfociata in una concitata progressione; si è approdati di nuovo a un brano veloce, con la scatenata batteria di Faulkner in evidenza a sostegno delle impennate visionarie del soprano del leader... Di volta in volta il contributo dei partner si è stagliato decisivo, con spazi individuali di rimarchevole solismo, soprattutto da parte di Calderazzo al piano.

I cubani Gonzalo Rubalcaba e Aymée Nuviola, che si conoscono dall'infanzia, hanno tenuto a Perugia una data del nutrito tour della loro band. Se si esclude la parentesi di un duo piano—voce su una canzone dal tono intimista e malinconico, Rubalcaba, affiancato dalla ritmica, ha usufruito solo di un paio di assoli degni di questo nome, esponendo un pianismo articolato, percussivo, veloce, affermativo. Per la maggior parte del concerto ha sostenuto il ruolo di accompagnatore di lusso, con lo stesso peso degli altri quattro strumentisti del gruppo. Le redini dell'esibizione le ha tenute infatti l'esuberante cantante, la cui voce stentorea e ritmata ha richiesto più volte la risposta del pubblico, il quale non ha tardato ad aderire con entusiasmo, sancendo lo scontato trionfo di questa declinazione della musica popolare cubana.

All'Arena ha fatto tappa anche "Heroes—Omaggio a David Bowie," operazione nata due anni fa su commissione a Paolo Fresu da parte del Comune di Monsummano Terme, dove nel 1969 Bowie era arrivato secondo a un concorso canoro istituito da questa città. Rispetto all'ultima apparizione del super-gruppo, quattro giorni prima a Vicenza (vedi qui la recensione), che era risultata un po' scoordinata, l'esibizione perugina è stata senza dubbio più organica, funzionale, ben condotta nelle sue fasi. Il che ha comportato non solo un elevato equilibrio formale, ma ha permesso al collettivo di elaborare crescendo avvincenti, un interplay senza sbavature, spunti improvvisativi convinti da parte di ognuno. Nella dovuta concisione e nella ricca modulazione vocale, sono risultati brucianti gli interventi di Petra Magoni, che si è ritagliata uno spazio raccolto, in trio con Francesco Diodati e Francesco Ponticelli, nell'interpretazione di "Life on Mars." Sicuramente più lunghi, articolati e motivati gli assoli di Paolo Fresu e decisamente più chiaro e robusto il ruolo del trombone di Filippo Vignato. Ugualmente incisiva e infallibile la funzione sostenuta da Diodati, Ponticelli e Christian Meyer alla batteria. Tutto si è mosso con efficienza fino al crescendo parossistico del conclusivo "Let's Dance."

Al chiuso del Teatro Morlacchi è stato invece spostato l'atteso concerto di Gianluca Petrella, che assieme a Pasquale Mirra, suo sodale nel recente congeniale duo, è stato incaricato dal festival di pensare ad un progetto inedito per larga formazione. Ne è nato un settetto denominato Correspondence e comprendente oltre a Petrella e Mirra, due percussionisti e tre chitarristi, impegnati in una vasta gamma di strumenti, fra cui la kora e il guembri, oltre all'immancabile componente elettronica. L'Africa era il riferimento più evidente, ma non l'unico, della loro musica collettiva, satura di ritmi, di colori torridi e di trame timbriche; in un paio di brani è spiccato uno speziato sapore Ethio Jazz, altrove non sono mancati riferimenti a Sun Ra e Don Cherry. In sostanza il progetto, che ha raggiunto uno spessore ineludibile proprio quando i due leader erano maggiormente in vista, si presenta come un'estensione delle idee che essi propugnano nel loro coeso duo, ma anche delle intenzioni che caratterizzano la Cosmic Renaissance del trombonista barese.

La serata conclusiva all'Arena Santa Giuliana, tripartita, ha registrato una buona affluenza di pubblico. Una tradizione culturale ancora diversa dalle precedenti è stata documentata dal Quinteto Astor Piazzolla. Fondato nel 1998 sotto la direzione di Julian Vat e formato da musicisti di valore, esso intende tenere in vita il patrimonio lasciato appunto dal maestro del tango argentino, replicando la formazione da lui canonizzata nel 1960 e ripresa anche in seguito: bandoneon, attorniato da pianoforte, violino, chitarra e contrabbasso. Non so quanto la loro rivisitazione sia filologica, certo non è nostalgica. A Perugia i ritmi sostenuti, le concitate dinamiche dell'interplay, la pronuncia decisa dei singoli, in alcuni momenti la complessa stratificazione delle voci hanno fatto della loro musica una proposta del tutto attuale, dotata di energica vitalità. Un incedere troppo uniforme il loro? Con poche distensioni e poche malinconiche introspezioni? Forse sì!

Poco dopo Danilo Rea, orfano di Gino Paoli, che ha dovuto rinunciare per motivi di salute, si è inoltrato in una solo performance di alto tenore jazzistico, in un flusso continuo senza interruzioni per presentare i brani. Dopo una lunga introduzione in cui trapelavano citazioni di canzoni di Elton John e di Sting, si sono succeduti vari temi, da Monk all'omaggiato Paoli, da "The Man I Love" a "Bocca di rosa," che sono stati deformati, intrecciati fra loro e inglobati in un processo improvvisativo eccitante, contrastato, rapsodico. Per il bis invece si è dirottato sulla famosa aria "Nessun dorma" di Puccini. In definitiva la fresca inventiva e le continue sorprese del pianista romano hanno offerto un concerto coinvolgente, che ha pienamente soddisfatto la critica e il pubblico presente.

La serata e il festival si sono conclusi nel modo più festoso possibile con i Funk Off, marchin' band toscana, per la precisione di Vicchio, paesino famoso per aver dato i natali a Giotto e al Beato Angelico. La band, che da diciannove anni si esibisce ad ogni edizione di Umbria Jazz, solo quest'anno ha avuto l'opportunità di calcare la scena dell'Arena Santa Giuliana (e anche questa è una conseguenza del Covid). Com'era prevedibile la formazione, animata dal suo fondatore, il baritonista Dario Cecchini, ha profuso un'estrosa, cadenzata, gioiosa compattezza, mimata dai passi di una coreografia studiata per l'occasione.

Altri appuntamenti immancabili del festival umbro sono stati i concerti pomeridiani al Teatro Morlacchi in una rassegna dedicata alle orchestre italiane. Nell'ultimo decennio stiamo assistendo a un'insperata rinascita delle larghe formazioni in tutto il mondo, nell'ambito del mainstream come in quello della sperimentazione. Come si è potuto constatare nei concerti ascoltati a partire dal 13 luglio, le orchestre che si sono succedute hanno offerto una gamma diversificata di provenienze territoriali, di approcci stilistici, della componente generazionale. In generale si può muovere un appunto alle formazioni di casa nostra per la carenza della quota rosa.

Sotto la direzione di Ferdinando Farao l'affiatata e ormai longeva Artchipel Orchestra ha riproposto alcun brani del repertorio dei Soft Machine, secondo arrangiamenti dinamici e stringenti, mettendo in evidenza strumentisti di elevata qualità. Estremamente opportuna quindi la vigorosa rilettura di questa tappa fondamentale del jazz britannico di cinquant'anni fa da parte della band milanese.

Sicuramente il linguaggio orchestrale più avanzato e sperimentale è stato proposto dalla Tower Jazz Composers Orchestra, formazione nata nel 2016 nell'ambito del Torrione Jazz Club di Ferrara. Molti membri della compagine hanno contribuito al repertorio, scrivendo e arrangiando gli original, che a Perugia sono stati eseguiti con grande rigore e motivazione sotto la direzione di Alfonso Santimone. Sono emerse soluzioni musicali variegate, basate di volta in volta su audaci impasti armonici, contrasti dinamici e timbrici, cambi di direzione...

Anche nella romana Orchestra Nazionale Jazz Giovani Talenti, nata di recente con un organico insolito, i brani sono stati composti da alcuni componenti del tentetto, oltre che dall'autorevole Paolo Damiani che lo dirigeva. In questo caso hanno prevalso una sonorità delicata e cameristica, una cantabilità distesa, venata da lontane influenze folcloriche o colte, che si è andata ravvivando nei finali; altrove metriche scandite e geometriche hanno lasciato il posto a più disarticolate aggregazioni collettive.

Gabriele Mirabassi, che non è nuovo a collaborazioni con orchestre che si dedicano alla musica dei film italiani degli anni Sessanta, era ospite del progetto "Fellini e la musica" proposto dalla New Talent Jazz Orchestra, ampia formazione diretta da Mario Corvini. Il clarinettista perugino ha avuto un ruolo da protagonista in ogni brano, emergendo con il suo estremo virtuosismo e la sensibilità improvvisativa. Gli arrangiamenti dei brani di Nino Rota, ma anche di Nicola Piovani, realizzati da Marco Tiso, Franco Piana e dallo stesso Corvini, hanno presentato soluzioni strutturali e dinamiche particolarmente sofisticate.

"Swing with Sting" era invece il titolo del programma ideato dalla Nick The Nightfly Orchestra, composta prevalentemente da esperti musicisti di area lombarda, fra i quali Emilio Soana, Giulio Visibelli e Gabriele Comelio. Grazie agli arrangiamenti di quest'ultimo i brani di Sting, dai Police in poi, sono stati trasformati in un linguaggio jazz canonico e swingante, a volte con una leggera sfumatura funky. A questo approccio ha contribuito ovviamente anche il titolare Nick The Nightfly (fra l'altro è stato lui il presentatore principale dei concerti del festival), che ha intonato il repertorio di Sting con il suo canto robusto, che guarda alla classicità del jazz.

La rassegna si è conclusa con la Emilia-Romagna Jazz Orchestra, coordinata da Piero Odorici e Roberto Rossi; formazione che ha avuto la sua gestazione durante il periodo di stasi imposto dal Covid. Il repertorio, comprendente composizioni di Cedar Walton, Dizzy Gillespie ed altri, è stato sottoposto ad arrangiamenti di stampo mainsteam, in cui le parti orchestrali hanno avuto prevalentemente la funzione di raccordo o di contrappunto, lasciando estesi spazi solistici ai singoli strumentisti (su tutti Odorici), con l'accompagnamento della sola sezione ritmica, in cui ha spiccato Stefano Senni al contrabbasso. Indubbiamente più interessanti sotto il profilo delle strutture orchestrali si sono rivelati un paio di original: uno di Rossi, il principale arrangiatore della band, e l'altro del tenorista Barend Middelhoff.

Un'ultima osservazione complessiva: in tutte queste orchestre, oltre a nomi ben noti e già affermati, si sono distinti anche molti giovani preparati e talentosi. Sarebbe inopportuno in questa sede fare dei distinguo; per il momento ho appuntato i nomi dei più promettenti e, se i miei pronostici si avvereranno, in futuro avremo occasione di riparlare di loro.

Un giovane emergente a livello internazionale invece, che abbiamo avuto modo di apprezzare ogni giorno in due set all'hotel Sina Brufani col suo trio, è il pianista trentunenne Emmet Cohen. Formatosi all'Università di Miami e alla Manhattan School of Music, Cohen ha dimostrato di saper affrontare un vasto repertorio con buona tecnica, esprimendo un modern jazz pieno d'inventiva e capace di entrare in sintonia con i partner occasionali nelle jam session.

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