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Merano Jazz 2021
Merano
Teatro Kimm e altre sedi
13-18.7.2021
L'atmosfera che si respira al Merano Jazz Festival è aperta e multiculturale. In questo, senza dubbio svolge un ruolo la storia della località bagnata dal Passirio, coronata a Nord dalle poderose, ripide fiancate delle Alpi Venoste. Nella seconda metà del XIX secolo Merano è divenuta un centro termale di primo livello, frequentata da aristocratici, borghesi e intellettuali di tutta l'Europa, ricca di parchi e giardini, di costruzioni in stile Biedermeier. La sua posizione geografica, poi, ne fa un fulcro dell'incrocio culturale mitteleuropeo, tra mondo latino, germanico e dell'Est europeo.
Su queste premesse storiche e culturali è basata anche l'organizzazione del festival, in particolare della sezione didattica denominata Accademia Jazz Mitteleuropea, fondata nel 2002 da Franco D'Andrea ed Ewald Kontschieder, che ha sempre cercato un'equilibrata fusione tra mondo italiano e germanofono nella scelta dei docenti, fatti ruotare generalmente in un arco biennale. Questo porta a tale virtuosa mescolanza anche nella provenienza degli allievi, che si distribuiscono in massima parte tra Nord Italia, Austria, Svizzera, Germania, con un ventaglio di età che spazia dagli adolescenti sotto i vent'anni, anche giovanissimi, ad un ampio bacino tra i venti e trenta, fino a qualche arzillo ultrasettantenne e ottantenne.
Altro incrocio di notevole interesse è quello tra la parte didattica e quella concertistica, quest'ultima curata da Vincenzo Costa. Anche gli allievi hanno modo di abbinare alla frequentazione dei corsi, e alla pratica di musica d'insieme, l'ascolto dei concerti, che quest'anno comprendevano l'appuntamento inedito del quartetto diretto in tandem da D'Andrea e da Dave Douglas, con Federica Michisanti al contrabbasso e Dan Weiss alla batteria. Nei giorni precedenti al concerto, con Douglas e D'Andrea, e nella giornata successiva del 16 luglio, con il quartetto al completo, si è tenuta pure una masterclass, dove i musicisti illustravano i criteri del loro lavoro e rispondevano alle domande degli allievi, sia con le parole che con la musica. Un'occasione preziosa di apprendimento e approfondimento per i partecipanti.
Centrando una speciale congiunzione che assumeva la forma di un meccanismo astrale, il festival di Merano festeggiava quest'anno ben tre ricorrenze: in primo luogo gli splendidi ottant'anni di D'Andrea, nato nella città del Passirio e suo cittadino onorario. Poi i venticinque anni di programmazione del festival, nato nel 1996. Infine, i vent'anni di attività dell'Accademia mitteleuropea di jazz, che nel 2002 iniziò a organizzare i primi corsi. Merita la nostra attenzione la masterclass del quartetto, dalla quale riportiamo alcune parole, utili per penetrare le logiche sulle quali si muove la musica della formazione, che prima del concerto di Merano si era rodata nei concerti di Braga, in Portogallo, di Pescara e Pisa.
In sintesi, la musica del quartetto si basa sulle più recenti idee sviluppate da D'Andrea: "Fare musica partendo dal semplice utilizzo di un intervallo tra due note, o di più intervalli, magari con le relative inversioni, può dare luogo a una serie molto ampia di soluzioni espressive e narrative, di scambi tra i musicisti, di stimoli creativi." Douglas, la cui ammirazione per il lavoro del pianista è profonda e risale al loro primo incontro, proprio a Merano nel 2009 (sfociato negli anni passati in collaborazioni con il quartetto di D'Andrea e con Han Bennink in trio), ha recepito tale impostazione e ne ha ricavato alcuni brani, che si sono intrecciati a quelli del pianista: "L'approccio di Franco è molto radicale e nuovo. La prima volta, per me fu uno shock: l'occasione per immergermi in un mondo nuovo, fatto di intervalli tra note. Ho preso questo sistema e ho creato delle cose. Tutti apprendiamo dallo stesso oceano e ognuno sviluppa gli stimoli in modo diverso. Il passaggio tra un episodio e l'altro, nel quartetto, comincia quando tutti avvertono e recepiscono l'area intervallare, la forma o il colore a cui uno dei componenti fa riferimento."
Il concerto del quartetto a Merano ha reso esplicite in modo pregevole tali premesse teoriche. Alla base del lavoro c'è un alto grado di ascolto reciproco, una dimensione in cui tutti contribuiscono alla creazione di forme, mantenendo le proprie caratteristiche di approccio e stile personale, ma giungendo a risultati che sono inequivocabilmente frutto di un'elaborazione di gruppo. Inflessioni blues, ostinati morbidi del contrabbasso, aperture ritmiche ariose della batteria, curve narrative della tromba che toccano alte vette drammatiche ed energetiche. Tutto il quartetto viaggia su questi parametri di reciprocità intensa. E il pianoforte tesse una tela fatta di contrasti, di continue sorprese nel carattere del suono, nell'articolazione del fraseggio, che pur dentro una fluida matrice jazzistica lascia intravvedere i bagliori della seconda scuola di Vienna, la concisione aforistica dell'amato e sviscerato Webern. La costante dialettica di tradizione e innovazione fa affiorare tra l'altro temi di Monk ("Monk's Mood") ed Ellington/Strayhorn ("Oclupaca" e "The Star-Crossed Lovers").
Il primo concerto del cartellone meranese proponeva il lavoro Dreamers, con lo stesso quartetto guidato da Maria Pia De Vito, coinvolto nella registrazione del CD omonimo, pubblicato di recente: Julian Oliver Mazzariello al pianoforte, Enzo Pietropaoli al contrabbasso e Alessandro Paternesi alla batteria. La vocalist coniuga qui il suo profondo interesse per la Mitchell con lo scandaglio di altri interpreti, che dagli anni Sessanta in poi hanno espresso con parole e musica il loro sogno di una società e di una vita diverse. Ecco, dunque, il "Be Cool" della Mitchell: "Come conviene comportarsi in società per non farsi fare troppo male." Ma anche "The Lee Shore" di David Crosby, che spinge a volare con leggerezza contro la guerra. E "Pig, Sheeps and Wolves" di Paul Simon, interpretato dalla De Vito in un recitativo di grinta spavalda. Non poteva mancare "Times They Are A-Changing" di Dylan, introdotto da un duetto intenso di voce e contrabbasso. E ancora il Paul Simon di "Questions for the Angels," dove risalta l'eccellenza di Mazzariello nell'accompagnamento. Nella proposta, la De Vito trasfonde la propria personalità sfaccettata, il temperamento, la varietà espressiva, la voglia di improvvisare e inserire digressioni, valorizzando al massimo grado l'apporto pregevole dei propri compagni di avventura.
L'appuntamento con il quartetto All-Star di Kenny Barron mostrava il lato più vivace e raffinato di un mainstream che si alimenta ancora di fresca creatività e digressioni originali. All'età di settantotto anni, il pianista riunisce in sé una vera e propria enciclopedia del jazz moderno, con un tocco luminoso, ricco di sfumature espressive, con una fluida capacità di mescolare i colori e di incrociare i ritmi. In un concerto incorniciato dall'adorato Thelonious Monk, con "Monk's Dream" e "Well, You Needn't" ad aprire e chiudere le danze, Barron ha proposto una carrellata di brani rinomati, da "How Deep Is The Ocean" a "Body and Soul," a un singolare "Don't Explain" su scansione latina. Con qualche originale dalla sua penna, per una performance di alta classe, di profilo aristocratico. Sostenuto da un gruppo davvero di tutte stelle, con il vibrafono sanguigno di Steve Nelson, il contrabbasso impeccabile di Peter Washington, la batteria duttile e caleidoscopica di Johnathan Blake.
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